Partnership al progetto
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INTERVISTA 1
Hassan Fayad, Laureando in psicologica criminologica e forense presso l' Università di Torino
Ciao Hassan, sei laureando in psicologia criminologica e forense, hai lavorato come mediatore culturale per un anno presso la casa circondariale di Ivrea (Piemonte) e hai fatto il volontariato per due anni nelle carceri Libanesi. I temi in cui ti stai specializzando le condizioni psico-emotiva dei detenuti e la politica penitenziaria generale.
Ci siamo conosciuti attraverso l’associazione Antigone, vorrei farti un’ intervista
in cui con poche semplici domande spieghi chi sei, di cosa ti occupi e se ne
hai voglia, qualche esperienza vissuta durante il lavoro all’interno delle
carceri.
· - Rispetto al tuo lavoro di mediatore culturale
per un anno presso la casa circondariale di Ivrea, cosa ti va di raccontarci di
questa esperienza? (contatto con detenuto, problematiche principali a livello
psicologico del detenuto, richieste frequenti e proposte da parte del detenuto)
Inizio con spiegare la figura di chi è, e cosa
fa all’interno del carcere un mediatore culturale. Questa figura, a cui non è
richiesta alcuna specificità quale psicologo, medico, avvocato ecc ecc, è
fondamentale per “mediare” il rapporto tra il detenuto ed il “carcere”. Il
compito del mediatore culturale è quello di leggere le richieste, le lamentele
o i bisogni di un detenuto e far in modo che queste vengano ascoltate o portate
a compimento. Durante il mio lavoro da mediatore Culturale, nel carcere di
Ivrea, ricevevo molte richieste “domandine”, io sono originario del Libano,
parlo molto bene l’arabo e quindi spesso ero portavoce degli arabi finiti in
carcere senza parlare bene l’italiano o in taluni casi, affatto. Di richieste
ne ricevevo moltissime, da guanti per fare la box, ad un libro, al corano,
c’era chi chiedeva di fare più telefonate, chi si lamentava di una mancata
risposta ad alcune richieste fatte al direttore del carcere, è difficile
categorizzare il tipo di richieste o lamentele che mi trovavo a leggere, erano
moltissime, ricordo però che la maggior parte delle richieste riguardavano le
famiglie fuori e il contatto con loro, telefonico, epistolare o fisico durante
le visite.
Una caratteristica che mi preme raccontarvi è quella dello SFOGO. Io per
formazione personale sono laureato in psicologia e sto concludendo la magistrale,
quindi ciò che sto per raccontarvi è parte del mio lavoro.
Spesso il detenuto, inconsapevole anche lui, fa richiesta di vedere il
mediatore culturale per potergli fare richieste o lamentele dal vivo. Ancora
più spesso accade invece che questo contatto si trasformi in uno sfogo della
frustrazione che si vive all’interno del carcere.
· - Come definiresti questa frustrazione di cui ci
stai parlando?
Per risponde a questa domanda racconto un episodio.
Mi è capitato una volta di notare un ragazzo, appena arrivato in Italia, non
trovando di cosa vivere aveva iniziato a spacciare droga, poco dopo finito in
carcere.
Mi presentai al nuovo arrivato, davanti a me avevo un ragazzo normalissimo, visibilmente
spaesato, ma comunque nessun campanello di allarme. Tornai a trovarlo dopo
cinque giorni e notai sul suo braccio numerosi segni di autolesionismo
dall’inizio della spalla fino alla parte terminale della mano. Domandai al
ragazzo cosa fosse successo, ma la risposta mi fece capire quanto, rabbia,
frustrazione, e il non sentirsi più amato, considerato, può far andare una
persona fuori di sé. Il ragazzo aveva semplicemente subito uno scherzo, una
traduzione sbagliata di un suo amico aveva creato in lui un risentimento tale
da tagliarsi in quel modo, senza un freno, senza sentire dolore, senza più
lucidità.
· - Cosa prevede la legge per dare supporto
psicologico a queste persone?
In Italia, IN TEORIA, l’assistenza psicologica
è obbligatoria, o comunque a disposizione del detenuto.
Il servizio
a disposizione è “la sezione nuovi giunti”, consistente in un presidio
psicologico, che si affianca alla prima visita medica e al colloquio di primo
ingresso, ed è destinato ai "nuovi giunti", intendendosi per tali
quei detenuti o internati provenienti dalla libertà.
Ricordiamo che il senso di reclusione ed il carcere si portano dietro un’
infinità di disturbi tra cui “La sindrome dell’ingresso al carcere”, consistente in
una serie di disturbi non solo psichici, ma spesso anche psicosomatici, riguardanti
diversi organi ed apparati. Questo perché quando si entra in carcere vengono
meno molti diritti della persona, non solo la libertà perché non vi è la
possibilità di uscita. Viene meno l’intimità, la facoltà di prendere decisioni,
la libertà di scelta tra quando lavarsi o quando leggere, viene meno il
contatto con un familiare, si viene spogliati di tutto ciò che caratterizza una
persona, oggetti ed affetti.
· - Cosa provoca o può provocare a livello psicologico la
detenzione?
Come anticipavo prima i disturbi e le problematiche che la privazione della
libertà si porta dietro, sono moltissime. Cito qualcuna di queste tra cui “la
sindrome della prigionizzazione” che consiste in una serie di segni clinici che
costituiscono un processo di spersonalizzazione, di demolizione della propria
immagine, di annichilimento dell'autostima, da parte del detenuto. Prima ancora di entrare in carcere vi è “la
sindrome dell’arresto” in cui chi viene arrestato ha, nei confronti di
parenti, amici, vicini di casa e tutti coloro che vivono il momento
dell’arresto, senso di disagio, imbarazzo e vergogna. Altri disturbi quali “la
sindrome dell’ingresso al carcere” che compare tanto più frequentemente e manifestamente, quanto più
elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti
detenuti. Questa consiste nel trauma che una persona vive nel momento
dell’ingresso nel carcere, in cui a sua condizione muta, la sua libertà di
movimento viene meno e le sue abitudini cambiano radicalmente, privacy e
comodità non esistono più. La sindrome che si manifesta dopo l’ingresso al
carcere è una sorta di “abitudine/ adattamento negativo al carcere, , in cui ti
senti parte di un gruppo. Ricordiamo che all’interno si creano delle
fazioni/gruppi di criminali ai quali è opportuno appartenere per evitare che
possano scambiarti come una spia.
Uno dei disturbi che mi sono ritrovato a studiare è la sindrome di Ganser. Una
persona affetta da tale problematica rifiuta totalmente la condizione in cui si
trova, e si susseguono episodi di assenza totale dalla realtà, o totale
distaccamento dalla realtà.
· - Secondo quanto studiato durante il tuo percorso universitario la reclusione ha un effetto
rieducativo?
L’articolo 27 comma 3 della Costituzione
italiana segue il principio secondo il quale “le pene devono tendere alla
rieducazione del condannato”. Quindi lo Stato dovrebbe predisporre tutti
gli strumenti attraverso i quali possa e debba avvenire la “rieducazione” di
coloro che per una determinata circostanza hanno infranto la legge. In pratica
la triste realtà è che nella maggior parte delle carceri mancano i fondi, manca
il personale, mancano gli strumenti per l’applicazione della legge.
Dopo aver collaborato con altre associazioni, ho trovato che Antigone sia una
delle poche che non si ferma al volontariato o alla “beneficienza”. Antigone,
associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, è nata alla fine
degli anni ottanta. E’ un’associazione politico-culturale a cui aderiscono
prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari,
insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale.
- Hai avuto modo, durante i tuoi studi o durante il volontariato, di stare a contatto con coloro che gestiscono e/o lavorano all’interno del carcere. Secondo le statistiche i suicidi in ambito carcerario non sono solo da parte dei detenuti ma anche di chi lavora in tali ambiti, questo dato dovrebbe farci riflettere molto. Secondo te com'è possibile
Sui manuali che ho studiato, ho scoperto che
un poliziotto penitenziario deve essere tutelato a livello psicologico. Unico
strumento ormai inevitabile che permette agli operatori di affrontare lo stress
da lavoro correlato che inficia, inconsapevolmente ed improvvisamente, l’agire
quotidiano, proprio a causa della estrema delicatezza e difficoltà dell’impegno
richiesto.
Quando mi trovavo a lavorare dentro il carcere
facevo esperienza della condizione in cui lavoravano e lavorano tutt’oggi i
poliziotti penitenziari. E’ come se fossero detenuti, la differenza è davvero
labile, la loro libertà è negata senza essere detenuti.
Ho fatto esperienza di due tipologie di persone che lavorano all’interno del carcere.
Una rifiuta totalmente la condizione che vive chi è dentro il carcere, l’altra
figura compatisce tale condizione e cerca di vedere il detenuto in un'altra ottica,
non solo da criminale, ma cercando di entrare in empatia con lui.
Ricordo una frase di un poliziotto eravamo in “turno insieme” e quella mattina
ci siamo scambiati due chiacchiere, giusto per farci compagnia nei momenti
morti. Quel ragazzo avrà avuto più o meno una trentina d’anni, dopo aver preso
un po di confidenza, ricordo che mi guardò fisso negli occhi e mi disse una
frase che ha cambiato totalmente il mio modo di vedere la polizia
penitenziaria. Mi disse “quando penso che questo sarà il mio lavoro per i
prossimi vet’anni, penso a quanto sia più facile spararsi”. Questa frase mi
lasciò un senso di morte nel cuore, mi fece capire quanta urgenza reale c’è nel
dover cambiare un sistema che non funziona, e non funziona nella sua totalità.
Non funziona per le condizioni di chi vive e di chi lavora il carcere.
· - Cosa auguri che l’Italia possa migliorare per
definirci, come sosteneva Voltaire, un paese realmente civile?
“Non fatemi
vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il
grado di civiltà di una Nazione”
Basandomi su ciò che ho vissuto, sui miei
contatti con il carcere, mi auguro che possano applicarsi molte delle leggi che
l’Italia ha promulgato. Io come ho raccontato all’inizio sono Libanese, e il
sistema penitenziario lì, è oltre l’immaginabile, purtroppo nel mio paese
mancano le basi, e se qui ho fatto esperienza di alcuni casi davvero ai limiti
dell’inverosimile, lì il limite viene superato di gran lunga.
Mi auguro che l’Italia capisca l’urgenza di
intervenire su alcuni temi, e che professionisti del settore mettano il proprio
impegno nel cercare di migliorare un grande tema per cui ricondiamo che
l’Italia è stata condannata dalla CEDU nel 2013, ma di sentenze come quella ne
sono pieni gli archivi italiani.
· - Cosa ne pensi della possibile realizzazione di
una struttura in cui il detenuto, dopo aver “scontato” gran parte della sua
pena in carcere, possa riabilitarsi e rieducarsi alla “vita normale” attraverso: lavoro,
studio, laboratori di artigianato e/o altri, spazi per lo svago, spazi per lo
studio e tutto ciò che offre il “Progetto Aria”, con spazi all’aperto dove
passare la maggior parte del tempo?
Credo che è proprio questo di cui l’Italia ha
urgente bisogno. Se posso dare un consiglio in termini “meno tecnici”, trovo
che un tale progetto sia più facilmente realizzabile per i Circuiti attenuanti.
Mi spiego, in Italia vi sono i circuiti penitenziari, una realtà logistica atta a
rispondere a specifiche esigenze di sicurezza che si concretizza in una in una
serie di strutture e ambienti ai quali vengono destinati particolari categorie
di detenuti. I circuiti penitenziari sono realtà fisiche in cui sono allocati
detenuti contraddistinti da specifiche caratteristiche. Tali circuiti possono
essere, in base al reato: bassa, media o alta sicurezza (41 bis), per
gli ultimi due citati, un tale progetto avrebbe bisogno di un’infinità di
personale proprio per la sicurezza che all’interno di questi circuiti è molto
presente. I circuiti invece a bassa sicurezza di cui fanno parte l’ ICAM (Istituti a
custodia attenuata per detenute madri ) , l’ICATT (Istituti a
custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti) e la
semilibertà si prestano molto al tuo progetto.
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